CRONACA DI UNA (META) RIVOLUZIONARIA CUBISTA




La rivoluzione la puoi riassumere nella tensione tra quello che sei e l’immagine che vorresti avere di te stesso. L’immagine, non la sostanza.La punta del pennello si appoggia sul tratto che delinea la coscia di una donna. Ridefinisce quella linea, infrangendo quello che una volta era un nudo femminile e che ora è una figura astratta. Il realismo del ritratto in pittura viene superato in quel preciso istante. Per sempre. È notte fonda e Georges Braque lavora chino sopra la tavolozza. È alla seconda bottiglia di Borgogna e sta dando corpo a quello che la storia ha ribattezzato come movimento cubista. La sua mano è mossa dalla convinzione profonda che le persone nel mondo possono vedere una stessa cosa in maniera diversa. E che la cosa stessa in fondo non è mai la stessa cosa.

Rileggo.
Funziona.
E poi?
Sono le dodici e trenta di una domenica di metà dicembre. Mi restano ventiquattro ore per dare corpo al racconto sulla rivoluzione. Sono giorni che ci rimugino sopra, che riscrivo, che faccio ricerche, che riparto da capo, dopo essermi impantanato dietro idee assurde e rivoluzioni scritte male. Alla fine ho scelto di raccontare la rivoluzione cubista, dal punto di vista di Georges Braque, il pittore francese che insieme a Picasso ha disegnato le prime opere del movimento cubista. Non ho più molto tempo. La scadenza tassativa per la consegna del lavoro è fissata per domani alle ore tredici. Ho già mancato le prime due consegne preliminari: questo è l’ultimo momento possibile per vedere figurare il mio racconto nella raccolta “A 24 ore dalla Rivoluzione”. Mi infilo il cappotto e fumo una sigaretta in piedi sul balcone. Tanti racconti sono nati qui, altre storie personali si sono spente sopra questo metro quadrato da cui osservo il cortile. Una ragazza trascina una valigia le cui ruote producono un frastuono che si propaga in tutto il cortile. Procede a passo spedito, forse verso un treno in partenza, mentre un uomo seguito da un bambino sta portando in braccio uno scatolone, probabilmente un televisore, magari uno schermo 3D. Chissà se l’uomo e il bambino sanno che il concetto di immagine in 3D è nato con Picasso e Braque più di un secolo fa. Ma, soprattutto, questa cosa gli interesserà? Mi chiedo come si possa scrivere di rivoluzione in un’epoca assuefatta al concetto, ancor prima che alla parola, Rivoluzione. Mi domando come si possa restituire sostanza a un’idea che si è esaurita, come un fusto da cui esce solo schiuma, perché la birra è già stata servita tutta da un bel pezzo. In un mondo che spinge sempre più in là le colonne d’Ercole della trasformazione, senza rivoluzionarsi; o che si rivoluziona in continuazione, senza trasformarsi; in un mondo dove tutto cambia per non cambiare, ha ancora senso parlare di rivoluzione?
L’amore.
Di tutte le caratteristiche più importanti per un rivoluzionario, Ernesto Che Guevara indicava nell’amore la qualità imprescindibile. È l’amore a guidare il tratto di Georges Braque, un pittore con un amore ostinato per un’idea.  Braque sta pulendo i suoi pennelli dalla vernice e ripensa a tutte le volte che si è sentito diverso, emarginato, perché vedeva il mondo diversamente dagli altri bambini, poi dagli altri ragazzi e infine dagli altri uomini. Ripensa a quando da piccolo ammirava la perfetta calma di un lago, con le anatre che lo attraversavano lasciando una flebile scia sull’orizzonte dell’acqua. Un giorno si era lasciato sfuggire una frase sulla sublime perfezione dell’acqua cheta. Gli altri bambini lo avevano preso in giro - come solo i bambini sanno stigmatizzare la diversità - e avevano passato il resto del pomeriggio a tirare sassi nello stagno e alle anatre, per creare confusione e rendere frastagliata la linea dell’acqua. Il piccolo Braque aveva amato ancora di più il lago in subbuglio e aveva iniziato a chiedersi come si potesse rappresentarlo in entrambi i suoi stati, quieto e irrequieto, all’interno di un’unica immagine. Nella sua mente le diverse percezioni del lago si intervallano, si susseguono, si confondono, si alternano, s’intrecciano e si fondono in un visionario montaggio cinematografico. Braque appoggia i pennelli puliti sulla sua tavolozza e getta uno sguardo verso il quadro. Pensa agli uomini del futuro che magari anche grazie a questo dipinto riusciranno a percepire, accettare e rispettare il concetto di diversità.
La chiave gira quattro volte nella serratura. È lei. È tornata con la spesa. Mi precipito ad aiutarla, mosso dal senso di colpa per averla fatta andare da sola, perché dovevo scrivere. La scrittura, ormai, è come un’amante tollerata nella nostra relazione. Ruba le mie migliori energie creative, i miei rari momenti di freschezza extra-lavorativa; quando non scrivo mi rende assente, spesso m’innervosisce, quasi sempre mi porta via da lei. Forse un’altra donna sarebbe meno invasiva nella nostra relazione. Inizio a sistemare la spesa nel frigorifero e nella dispensa. Oggi c’è una luce intensa che rende la cucina luminosa e piena. Mi viene voglia di cucinare qualcosa per stasera. Mi viene voglia di abbandonare per sempre il racconto, la scrittura, e lasciarmi trascinare dalla vita e dai semplici piaceri come un risotto alla mantovana o un brasato, accompagnati da una bottiglia di Barolo, o al limite un Refosco. Impallidisco all’idea che ci sia stato qualcuno in grado di scrivere migliaia di pagine nel corso di una sola esistenza e di resistere a tutta la bellezza dei piaceri con cui il mondo ti solletica ogni secondo. Chissà come diavolo ha fatto Georges Simenon a scrivere tutti quei libri in una sola vita? Sono quasi le tredici. Tempo di andare a pranzo.


“Come procede il racconto?”
“Mah…”

Mi guarda. Si è rassegnata alla presenza immateriale di quest’altra compagna nella mia vita, ma non alle mie lamentele e al mio perenne senso d’insoddisfazione verso qualsiasi cosa che sto scrivendo. Vorrebbe almeno vedermi contento e non come un condannato verso il patibolo. “Senti finisci tu qui, io vado un po’ di là.”  Sarà dura arginare il suo fastidio. Siamo solo all’inizio della giornata e del racconto. Il peggio deve ancora venire. Il tavolo è affollato di prodotti di vario genere, mischiati tra loro. Chissà come faceva la spesa Braque? Chissà come cucinava? Immagino i pranzi con Picasso, in cui le teorie cubiste s’intrecciavano alle pratiche culinarie. La realtà alla fine s’insinua anche nella vita dell’artista più geniale: c’è sempre una zuppa da preparare. Quando vado in soggiorno la vedo immersa nel suo pc, alla ricerca di uno svago prima del pranzo domenicale che ci attende. Dai miei.
Mi serve un bicchiere di rosso prima di uscire.
Camminare ha sempre il potere di rasserenarmi, insieme al bicchiere di rosso buttato giù a stomaco vuoto, che ha risvegliato l’alcool di ieri sera. Mentre camminiamo, il mio sguardo indugia su di lei. La sua dolce bellezza. La sua eleganza discreta. Tra le cose che dovrò combattere al rientro a casa, per cercare di andare fino in fondo al racconto sulla rivoluzione di Braque, al primo posto c’è senz’altro il resistere alla sua bellezza, oltre che al sonno, il nemico supremo di ogni scrittore. Non riuscirò mai a capirlo, come la voglia mi assalga nelle situazioni meno indicate, quando non mi è possibile esaudirla.  Siamo arrivati. La tavola è apparecchiata a festa, più come per la cena di Natale che per i pranzi domenicali. Mi accerto subito della presenza del vino. Trovo un rosso già scaraffato che vado subito ad assaggiare. Vino toscano, probabilmente un Bolgheri, vino molto amato da mio padre e anche da me.
L’amore di un rivoluzionario, diceva Che Guevara. Quanto dovevano amare questo mondo Braque e Picasso per donargli la tridimensionalità. La sfaccettatura delle cose e delle idee. E dopo aver fatto questo, andare dal macellaio a prendere della carne per la cena e cucinarla per qualche amico o per una donna. Siamo al secondo e praticamente non ho parlato. Avverto degli sguardi furenti da parte di lei che mi sta dicendo: non puoi pensare di portarmi qui e andartene con la mente per i fatti tuoi. Non provarci nemmeno.
“Papà vi deve dire una cosa.”
Mia madre ha la voce rotta e mi guarda con gli occhi coperti da un velo di lacrime. Mio padre esita, si schiarisce la voce.
“Ecco, non so bene come introdurre il discorso. Pare che non mi resti molto.”
“Molto cosa?” chiedo io, di getto.
“Molto tempo. Da vivere.”
Il gelo piomba sulla tavola.

L’alba. I primi raggi di luce si depositano sulla tela, incidendo e illuminando quello che una volta era un nudo femminile. La luce gli regala una nuova astrazione, pensa Braque, le possibilità di questo nuovo modo di dipingere non si sono esaurite, siamo appena all’inizio. Sta fissando la tela da più di un’ora, da quando ha compiuto l’ultimo ritocco. Il suo corpo è immobile, i suoi occhi sono schegge impazzite che corrono e ripercorrono ogni millimetro della tela. Per la strada Braque può ammirare Parigi al risveglio. Entra in un bar e ordina quattro croissant da portare via. Al bancone osserva un uomo con un cappotto chiaro che beve il caffè di fianco ad una giovane donna con indosso un abito da sera scuro. All’alba s’incrociano i lavoratori più mattutini e i nottambuli più accaniti. Bevono gomito a gomito un caffè, l’ultimo o il primo della loro giornata e restano per un attimo nello stesso quadro, prima di proseguire in direzioni opposte . Braque rientra in casa e mangia un croissant. È in attesa dell’unica persona al mondo che nel 1907 è in grado di comprendere quello che sta facendo: Pablo Picasso. Suona il campanello. I due si salutano con affetto. Quando incrociano i loro sguardi è come se ricevessero ristoro e comprensione. Probabilmente sarebbero finiti per impazzire, più di quanto non siano già stati ritenuti folli all’epoca, se non avessero avuto l’uno il conforto dell’altro. “Lo hai finito? Finalmente posso vederlo.” esordisce Pablo ancor prima di essersi tolto la giacchetta scura.

“Come tu oggi possa concentrarti sul racconto, non riesco proprio a capirlo.”
“Nemmeno io.”

In realtà la scrittura è sempre stata la mia via di fuga. Più forti sono i problemi che m’inseguono e più profondamente mi ci abbandono. Penso a mia madre che resterà sola. Penso alle cose che devo trovare il coraggio di dire a mio padre prima del tempo. Non riesco neanche a dire: prima che muoia.

“Sei sicuro di stare bene?”
No, non lo sono.
“Sono confuso.”
“Vuoi parlare?”
Parlare proprio no.
“Magari più tardi.”

Ripenso allo sguardo che aveva mio papà, al tono con cui ci raccontava della visita dal medico. Non era spaventato, era più preoccupato di non spaventare tutti noi. Forse si sente pronto.

“Quando fissi il vuoto in quel modo…”
Sorrido.
“E non dire che è per il racconto, per favore.”
Riprendo a batteri i tasti del computer, senza pronunciare una parola e senza guardarla.

Pablo sta fissando con spirituale concentrazione il quadro di Braque. I suoi occhi percorrono il dipinto come fosse una lunga strada di campagna, il cui paesaggio ti propone all’orizzonte nuove sorprese da guardare. Gli occhi di Braque sono umidi, non ospitano delle vere e proprie lacrime da quando era bambino. I due restano immersi in un silenzio incantato, in uno di quei momenti di profonda empatia che avvengono poche volte nell’arco di un’intera vita. Si stanno scambiando qualcosa di intimo ed estremo, qualcosa che le parole non potrebbero mai catturare: sono due anime in collisione, la più mistica e complicata delle avventure umane. Braque osserva il suo quadro, poi guarda Picasso che a sua volta lo sta studiando. Non gli importa di cosa diranno le persone del suo ritratto, non gli importa che la donna del suo quadro apparirà a tutti mostruosa e atroce. Disegnerà ancora così. Ha in mente di dipingere un violino il cui ponte che sostiene le corde si propaga in due figure distinte. Vuole disegnare dei paesaggi come non li ha mai ritratti nessuno; vuole raffigurare le persone come non sono mai state disegnate. In quel momento Braque è certo di una cosa: continuerà a tentare di far vedere al mondo la sua visione delle cose, anche a costo di mostrarlo a un solo essere umano.
Si è fatto buio e nemmeno me ne sono accorto. Accendo la luce e non sento nessun rumore provenire dalle altre stanze. Sarà uscita e non ho sentito che mi ha salutato? Vado in cucina dove trovo un biglietto che mi ricorda l’appuntamento a cena con Carla e Riccardo. L’orologio mi dice che sono le sette e dieci. Non mi rimane molto tempo. La frase di papà. Mi butto sotto la doccia e penso a quello che devo fare. I pensieri lottano tra loro e non mi permettono di concentrarmi. Il racconto deve finire con la parola Cubismo. Devo chiamare mio fratello. E mia madre, che avrà bisogno di parlare. Mi aspetta una settimana di fuoco, con tanto di trasferta a Roma. Quante cose che non sono riuscito a far vedere di me a mio padre. Quante cose non ho mai visto io di lui. Nella pizzeria dove andiamo stasera hanno una mozzarella di bufala deliziosa. Ci starebbe bene un Ripasso. O anche un Merlot. Al rientro devo finire di scrivere il racconto, così domattina avrò il tempo di rileggerlo un’ultima volta. Forse lo fai apposta. Incasini tutto per evitare di focalizzarti sulle cose che ti toccano veramente. Di nuovo le chiavi nella porta. La serata scorre come fosse un film muto. Le persone mangiano ai tavoli della pizzeria, nella serenità di una domenica sera come tante. Volti con l’appetito, volti immersi nel piatto, volti tesi dei camerieri al lavoro, volti appagati dalla cena. I volti dei miei amici. Il volto di lei. La sua bellezza, di nuovo irresistibile. I suoi occhi così vivaci.  Il profumo della pizza che ci arriva addosso, dopo che il cameriere ha portato quattro piatti al tavolo alle nostre spalle. L’aroma del Ripasso appena aperto che, no, non sa di tappo, rispondo. La partita di calcio che scorre in uno schermo a fondo sala. Le luci delle macchine che passano sulla strada. Le ombre dei passanti sul marciapiede. Mi sembra di essere dentro un quadro impressionista, dove i contorni delle persone e delle cose si fondono tra loro.
Due uomini sono fermi davanti ad un quadro. Sono immobili da diversi minuti. I loro occhi vagano perplessi lungo la superficie del dipinto, alla ricerca di un qualche appiglio, qualcosa che possa rendere armonica la visione e il pensiero che accompagna il loro sguardo. L’autunno parigino accorcia rapidamente le giornate e una fioca luce illumina il Salon d’Automne. Henri Matisse e Louis Vauxcelles stanno allestendo il Salon per l’esposizione del 1908 e non riescono a capire dove collocare l’opera di Braque. Hanno sentito parlare di quello che stanno facendo Braque e Picasso e vogliono esporre Braque per vedere la reazione delle persone. Solo che non riescono a capirlo. Lo studiano in silenzio ormai da una mezzora abbondante e il nudo femminile disegnato da Braque li disorienta come fosse un taglio su una tela. “Cosa sta cercando di fare, secondo te?”, domanda Matisse a bassa voce. Il critico resta in silenzio. Indugia sul volto della donna e quindi risponde. “Credo stia disegnando dei corpi di latta. Dei corpi di latta deformi. È come se riducesse tutto a uno schema geometrico. A delle forme che compongono i corpi. A dei cubi.” Quella parola rimbomba nel vuoto del salone andando a depositarsi su tutti gli altri quadri già allestiti. Quando il suono della voce si disperde, i due piombano in un silenzio che non riescono ad affrontare. Nel medesimo istante succedono due cose: i due uomini hanno coniato il nome della più grande corrente artistica del Novecento e sono diventati due dinosauri superati dalla storia. “Andiamo a prendere un caffè.” “Va bene.” Si voltano e si allontanano dal quadro di Braque, ma restano turbati da quello che hanno visto e scossi dalla parola che hanno appena generato.
Il Cubismo.
La rivoluzione la puoi riassumere nella tensione tra quello che sei e l’immagine che vorresti avere di te stesso. Se non raggiungi quell’immagine, la rivoluzione non si compie. Il mondo resta immutato. Se invece riesci a percorrere la strada che ti consente di diventare quello che vorresti essere, fai la rivoluzione. L’alba raggiunge anche me. Mi trova sveglio sul divano del salotto. Non sto fissando un quadro, ma il vuoto davanti a me. Mi preparo per uscire mentre lei sta ancora dormendo. Mi metto l’abito elegante e faccio il nodo alla cravatta.  Il lunedì mattina milanese non può reggere il confronto con le albe parigine di Braque e Picasso. Sembra tutto spento. La città scorre silente dai finestrini del primo tram in servizio. Sono l’unico passeggero, fino all’arrivo di un signore che sale e addirittura mi saluta, come se la quiete mattutina avesse trasformato Milano in un piccolo paese. Scendo dal tram e noto che il numero di macchine in giro è già aumentato rispetto a quando sono salito. Ovunque nella città staranno per suonare migliaia di sveglie. Una polifonia di risvegli che tra poco getterà nella città le persone che andranno a lavorare. Non c’è più molto tempo. Decido di aprire il portone con le chiavi e di non suonare. Apro la serratura della porta di casa lentamente. Il soggiorno è illuminato e vuoto. È pieno di libri di ogni genere. Volumi antichi, nuove edizioni, opere illustrate. Ogni immagine, ogni ricordo legato a questa casa non può che avere dei libri come scenografia. Spero che un giorno, tra quelli, ci sia anche un libro scritto da me.

Sento il rumore della porta di casa che si apre. Mi volto e vedo mia moglie che dorme. Chi può essere? Mi alzo e vado veloce verso l’ingresso.
In soggiorno c’è un uomo di spalle, vestito elegante. Ho un attimo di esitazione e di spavento prima di riconoscere mio figlio. Poche volte mi è capitato di vederlo in casa vestito così elegante. Lui si volta e mi saluta. Si scusa per avermi spaventato. Restiamo in silenzio per un istante, nella luce di un sole spento di dicembre che ci illumina senza scaldarci. Lo osservo all’inizio di una giornata lavorativa, come ce ne saranno a migliaia nella sua vita e come ce ne sono state altrettante nella mia. Fotocopie tutte uguali che al posto che disseminare in molte pagine l’originale della mia immagine, hanno finito per stingere e indebolire l’inchiostro della mia matrice. I suoi occhi sono giovani, pieni di luce e di determinazione. Come lo erano i miei alla sua età. Ora il mio sguardo è stanco, fiaccato dai segni che hanno lasciato i laser di tutte quelle fotocopie e segnato da alcune brutte immagini che ho dovuto guardare. Osservo mio figlio armeggiare con la sua borsa da lavoro, con le cartelline, le penne e i fogli. Ho tirato su un uomo e forse posso andarmene senza troppi rimpianti. Specchiandomi in lui capisco che sono stato il tipo di uomo che ho desiderato essere, forse non quello che ho sognato di diventare, ma certamente mi sono ritrovato nell’immagine che ho guardato allo specchio tutte le mattine della mia vita. Appoggia sul tavolo dei fogli e li fa scivolare verso di me. Non dice niente, distoglie lo sguardo; è emozionato. Conserva le movenze del bambino che fu, trasformate dai gesti e dagli atteggiamenti dell’uomo che è. Soffro all’idea di non poter vedere il padre che sarà. Leggo in testa al primo foglio: “Dentro lo sguardo. Cronaca di una (meta) rivoluzione cubista” di Giovanni Sanicola.

Nessun commento:

Posta un commento